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Cristo o Asclepio? I primi cristiani e la medicina
La prospettiva fondamentale con cui l’antica letteratura cristiana accosta il mito di Asclepio è quella delineata da Hugo Rahner nella poderosa monografia intitolata Griechische Mythen in christlicher Deutung, pubblicata a Zurigo cinquant’anni fa.
Per la verità Rahner non fa alcun riferimento esplicito ad Asclepio; tuttavia ciò che egli afferma nel primo capitolo della sua monografia riguardo al mistero cristiano e ai misteri pagani — rifacendosi in modo speciale al Protreptikós di Clemente Alessandrino, che al contrario cita a più riprese Asclepio e il suo mito — consente di inquadrare in modo corretto le relative testimonianze cristiane del II-IV secolo, di cui ci occuperemo in questo contributo.
Nel cuore del periodo cronologico in esame incrociamo ancora una volta quella «sconvolta epoca di Commodo e dei Severi»(180-235), caratterizzata sotto il profilo storico-religioso dal sincretismo della dinastia afro-siriaca (in funzione anche di un tendenziale «enoteismo» in nome di Heliogabalus, il famoso Baal di Emesa) e da una coerente tolleranza nei confronti dei vari culti dell’impero.
Risulta dall’analisi storica che di questa tolleranza i cristiani seppero avvalersi con accortezza, da una parte organizzando e irrobustendo le istituzioni della Chiesa (come il catecumenato, la formazione dei sacri ministri, l’autorità «monarchica» del vescovo), dall’altra estendendo l’impegno missionario fino ai più alti vertici dell’impero.
Ma risulta con altrettanta evidenza che non sfuggivano ai cristiani più colti e illuminati i pericoli del sincretismo, a cui pure la nuova fede veniva esposta.
Di fatto, neppure il culto di Cristo doveva sfuggire al disegno sincretistico della dinastia severiana. Lo dimostrano in modo eloquente alcune testimonianze fornite dalla Historia Augusta. Si tratta, è vero, di fonte sospetta, che va controllata con estrema attenzione. Tuttavia — come ho già dimostrato in altra sede — tali testimonianze si incastonano senza difficoltà nello sviluppo della tradizione storiografica dei rapporti tra i Severi e il cristianesimo.
Mi riferisco in modo speciale all’elenco delle quattro animae sanctiores che Alessandro Severo venerava nel suo larario. Com’è noto, nell’elenco compaiono Apollonio di Tiana, Cristo, Abramo e Orfeo. Il culto imperiale di queste quattro animae sanctiores — con a capo Apollonio di Tiana, figura di spicco dell’ideologia religiosa severiana — indica che il sincretismo dominante si coniugava nell’età dei Severi con l’esigenza di individuare validi modelli etici — una specie di «galleria di personaggi esemplari» per la preghiera e per la vita —. Nella venerazione di questi taumaturgi iniziati ai misteri divini, a cui potevano essere assimilati sul medesimo piano Cristo e Asclepio, si intravede l’anelito di un passaggio dal «sacro» al «mistico», precisamente lungo la via ascetica tracciata da siffatti théioi cindres.
Non bisogna vedere immediatamente in questa operazione dell’ideologia religiosa imperiale un intento anticristiano.
Ho già dimostrato a più riprese che l’Apollonio di Tiana rappresentato da Filostrato nella Vita Apollonii (come è noto, è questo il documento fondamentale della politica religiosa di Settimio Severo e di Giulia Domna) non corrisponde all’Apollonio della storia, e che, a dispetto della diatriba fra Sossiano lerocle ed Eusebio, esso non rappresenta neppure il tentativo di contrapporre polemicamente un taumaturgo pagano a Gesù Cristo. E’ vero piuttosto che l’Apollonio di Filostrato è l’eroe plasmato dalla propaganda imperiale, di cui la biografia è espressione, e che la tendenza ad accostare tra loro personaggi come Cristo, Apollonio o Asclepio conferma il sincretismo della politica religiosa severiana, secondo la quale Cristo andava annoverato nello stuolo venerando dei théioi éindres.
Che poi questa operazione della propaganda religiosa imperiale potesse rappresentare una vera minaccia per l’ortodossia cristiana, lo testimoniano a Roma per un verso le posizioni radicali dei due Teodoti, di Artemone, e in generale di coloro che tendevano a ridurre Gesù Cristo a un nudus homo; e, per altro verso, le varie forme di subordinazionismo della Logoschristologie e degli ambienti più aperti agli influssi platonicii°
Proprio qui — nel riferimento alla tradizione religiosa del platonismo — trova posto la lucida disamina di Hugo Rahner. «Il III secolo», egli scrive, «non è solo l’epoca della straripante misterizzazione di tutto il pensiero della tarda antichità, e non solo dell’incorporazione dei misteri nella teosofia e nella mistica neoplatoniche: in quell’epoca vanno plasmandosi e assumendo un assetto stabilmente ordinato anche la teologia e il culto della Chiesa. Ora, e solo ora, comincia la diatriba diretta fra misteri e cristianesimo. Gli apologeti, tutti superati di gran lunga da Tertulliano, combattono i misteri come “scimmiottature diaboliche” della verità cristiana; gli scrittori antieretici, che contestano la gnosi in rigoglio, smascherano i teurgi della nuova dottrina, che mescolano l’elemento cristiano con i miti e i riti dei misteri; i teologi, i grandi Padri della Chiesa con a capo Clemente Alessandrino, cominciano a mostrare ai greci il mistero del Logos in immagini che sono a loro familiari; e il cristianesimo greco riceve per sempre l’impronta del loro linguaggio teologico».”Il riferimento di Rahner alle immagini familiari ai greci è in realtà una citazione diretta del Protreptikós di Clemente Alessandrino, il quale, nel capitolo dodicesimo della sua esortazione, così apostrofa l’uomo greco: «Vieni… Ti mostrerò il Logos e i misteri del Logos, descrivendoli a somiglianza dei tuoi misteri».
Ovviamente, l’intento dell’Alessandrino — mentre egli si pone, in un certo modo, sullo stesso terreno dei pagani — è quello di mostrare che le loro cerimonie e i loro miti sono «pieni di inganni e di ciarlatanerie»,13 e che il Logos supera ogni contraffazione della verità proposta dai miti pagani.
A questo quadro ideale vanno ricondotti i riferimenti di Clemente al mito di Asclepio.
«Hai anche un medico, non solo un fabbro», scrive l’Alessandrino nel secondo capitolo dell’esortazione, passando in rassegna l’Olimpo degli dei; «e il medico era avaro. Si chiamava Asclepio. Ti citerò il tuo poeta, il beota Pindaro». La citazione dell’Alessandrino è tratta dalla terza Pitica, là dove il poeta scrive: «L’oro che nella mano rifulse, come magnifica ricompensa, lo spinse a strappare un uomo dalla mortels quando era già stato afferrato da lei: ma con le sue mani Zeus, lanciata la folgore attraverso il petto di entrambi, tolse loro il respiro rapidamente, e il fulmine ardente inflisse la morte». Così, conclude Clemente dopo aver citato anche l’Alcesti di Euripide, Asclepio giace tragicamente fulminato nella regione di Cynosuride. L’intento dell’Alessandrino è chiaro, ed è confermato anche da altri passi del Protreptikós, in particolare là dove Asclepio viene citato insieme ai Dioscuri e ad Eracle tra i «salvatori» immaginati dal mondo pagano come contraffazioni dell’unico vero Euerghétes, Gesù Cristo; o, poco più avanti, dove compare con Ermete ed Efesto tra gli evergeti divinizzati, la cui originaria natura umana è tradita dall’esistenza delle loro tombe. E’ evidente che l’Alessandrino cerca di screditare Asclepio e il suo culto, per rendere improponibile l’accostamento tra la divinità pagana e Gesù Cristo. Per questo, adducendo le testimonianze stesse dei pagani, Clemente sottolinea anche due tratti negativi di Asclepio, quali l’avidità di danaro e la tracotanza, che gli fa violare i confini naturali della vita e della morte.
Dopo Clemente, anche Origene nel Contra Celsum si occupa a più riprese del mito di I riferimenti si trovano soprattutto nel terzo libro dell’apologia, là dove Origene intende dimostrare che la nuova fede rappresenta una rottura insanabile con il credo religioso dell’ambiente circostante. Di per sé, rileva anzitutto l’Alessandrino in accordo con la tradizione precedente, i miracoli rappresentano un segno ambiguo, che sollecita il discernimento. Di fatto, essi compaiono un po’ dappertutto nel mondo pagano, come appunto dimostra il caso di Asclepio. Poco più avanti, Origene elenca Asclepio, i Dioscuri, Eracle e Dioniso come «uomini che i Greci credettero essere diventati dei». Ancora, Origene contesta decisamente la divinità di Asclepio fondandosi sull’episodio sconcertante della sua «folgorazione» da parte di Zeus. Il discorso sui miracoli di Asclepio, poi, trova ampio sviluppo quando Origene protesta perché Celso ridicolizza i cristiani a causa della loro fede in Gesù, giudicandola come creduloneria, mentre moltissimi pagani, greci e barbari, credono senza discutere alle apparizioni di Asclepio e ai suoi miracoli. Al riguardo, Origene torna a insistere sul fatto che miracoli e predizioni sono prerogative dei buoni come dei cattivi. Guaritori e veggenti non sono ipso facto né dèi né uomini divini: possono essere anche dei dèmoni. E questo è, a suo dire, il caso di Asclepio per la medicina, e di Apollo per la divinazione. Il punto su cui discernere, infatti, non è il miracolo o la divinazione in sé. Si tratta di vedere piuttosto se questi presunti dèi avessero qualche titolo di merito per rivendicare la loro appartenenza alla divinità. Se si trova che questo titolo essi l’avevano — osserva Origene —, perché erano senza indisciplina, ingiustizia, insipienza e impudicizia, allora l’argomentazione del pagano Celso, intesa ad assimilare questi personaggi a Gesù Cristo, avrebbe una certa consistenza: ma è manifesto dal racconto stesso del mito che le cose non stanno così.
In questa caratterizzazione negativa del mito di Asclepio Clemente e Origene erano stati preceduti dalla prima Apologia di Giustino. Qui, nel contesto di un’implacabile critica dell’idolatria, risulta già evidente la preoccupazione dei cristiani che Gesù Cristo venisse annoverato tra i vari teurgi del sincretismo pagano.
«Quando diciamo che Gesù risanò zoppi, paralitici e persone difettose dalla nascita, e che egli risuscitò dei morti alla vita», osserva Giustino, «sembrerà che noi stabiliamo una rassomiglianza con i prodigi attribuiti ad Asclepio». Alla luce delle successive argomentazioni dell’Apologia, questo rilievo di Giustino permette di cogliere una rivendicazione che scorre lungo numerose pagine della letteratura cristiana tra il II e il IV secolo, in stretto rapporto con il tema di «Cristo medico»: «L’unico medico», scrive per esempio Ignazio agli Efesini, «è Gesù Cristo nostro Signore»; il suo pane, l’eucaristia, è il «farmaco dell’immortalità, l’antidoto per non morire». In realtà, spiega lo stesso Giustino nel suo Dialogo con l’ebreo Trifone, le guarigioni operate da Asclepio o da simili personaggi non sono altro che diaboliche imitazioni e indebite appropriazioni delle prerogative di Cristo, a lui attribuite dai profeti. Qui la prospettiva è un’altra, rispetto all’Apologia, e si giustifica con il cambio del destinatario. Giustino ora non polemizza con i pagani, ma con gli ebrei, e perciò il ricorso alle Come si vede, Giustino coglie nel mito e nel culto di Asclepio un particolare aspetto della multiforme attività dei dèmoni. Essi riescono a stabilire un rapporto diretto tra le storie dei pagani e la Scrittura sacra, nell’intento di dimostrare che gli annunci profetici si realizzano di fatto nei teurgi pagani. In questo modo i dèmoni organizzano un vero e proprio tentativo di depistaggio nei confronti di chi si accosta ai libri sacri. 3° profezie risulta assai pertinente: «Quando il diavolo presenta Asclepio che risuscita i morti e guarisce le altre malattie», chiede l’apologista all’ebreo Trifone, «non devo dire che anche per questo aspetto egli imita le profezie relative a Cristo?».
Ma — come afferma H. Rahner — gli apologisti greci del II secolo vengono «superati di gran lunga» da Tertulliano nel suo attacco senza quartiere contro i misteri dei pagani.
Sono soprattutto due i passi che Tertulliano dedica ad Esculapio: uno si trova nel secondo libro Ad Nationes, l’altro nel quattordicesimo capitolo dell’Apologeticum. Rispetto alle argomentazioni apologetiche già percorse da Giustino, Tertulliano aggiunge che egli esercitava dannosamente la medicina (medicinam nocenter exercebat), e pertanto critica con decisione —anche sulla base delle testimonianze classiche, segnatamente di Pindaro — l’esemplarità di Esculapio. Secondo Tertulliano, Esculapio non è un modello da esibire: non è valido né per la preghiera né per la vita. In altri termini, agli occhi dell’apologista la «galleria di personaggi» proposti dalla propaganda religiosa imperiale non riveste alcuna credibilità. Solo Gesù Cristo rimane per lui l’unico medico, l’unico salvatore del mondo.
Il nostro percorso storico-letterario si conclude con il riferimento ad Arnobio e al suo «discepolo» Lattanzio, che rappresentano per molti aspetti il «bacino collettore» dell’apologetica in
Nell’A dversus Nationes Arnobio cita Esculapio non meno di una ventina di volte. insieme a una ripresa di temi già frequentati dagli autori cristiani a lui precedenti, Arnobio sviluppa un tema originale, riferendosi al fatto che Gesù Cristo — a differenza di Esculapio — «portò aiuto senza distinzione ai buoni e ai cattivi, e da lui non fu respinto nessuno di coloro che nelle difficoltà ne invocava la protezione contro gli assalti e i colpi avversi della sorte. In realtà», prosegue l’apologista, «è una caratteristica del Dio vero e di una potenza sovrana non negare ad alcuno la propria benevolenza, né considerare chi la meriti o meno».
Infine, nell’ultimo libro della sua apologia, Arnobio ridicolizza il culto romano di Esculapio. Quello che da Epidauro giunse nell’isola Tiberina era «delimitato dalla forma e dall’aspetto di serpente, che striscia in terra come fanno di solito i vermi nati dal fango… »; poi, in un attimo, non fu più visto da nessuna parte. E quante volte, dopo la sua venuta, Roma fu nuovamente tormentata dalla peste, benché al dio della medicina fossero dedicati templi e altari! Più avanti, nel secondo libro delle Institutiones, Lattanzio riporta l’antica tradizione secondo cui Esculapio fu fatto venire da Epidauro a Roma e liberò la città da una diuturna pestilentia.38Da parte sua, Lattanzio nel primo libro delle Divinae Institutiones riassume in questi termini il mito di Asclepio: «Esculapio», scrive, «nato non senza delitto da Apollo, che cos’altro fece che fosse degno di onori divini, se non che risanò Ippolito? E certo ebbe una morte ben famosa, visto che meritò di essere fulminato da Giove. Tarquizio, che espone le vite di uomini illustri, afferma che questo Esculapio, nato da genitori incerti, venne abbandonato; che poi fu trovato da alcuni cacciatori, allattato da una cagna, e affidato a Chirone; che apprese la medicina; che era originario della Messenia, ma che dimorava ad Epidauro. Cicerone afferma anche che fu sepolto a Cynosuride».
L’episodio, collegato con gli inizi del culto romano di Esculapio (291 a.C.) e con il sacro serpente di Epidauro (signum Aesculapii) rifugiatosi nell’isola Tiberina, viene valutato da Lattanzio come un’evidente operazione del demonio.
Il ricorso ad Arnobio e a Lattanzio conferma l’atteggiamento fondamentale dei primi cristiani dinanzi al mito e al culto di Asclepio.
Il rischio che Gesù di Nazaret venisse assimilato a un théios anér, a un taumaturgo o a un guaritore, era tutt’altro che remoto fin dagli inizi del suo ministero pubblico, ma certamente incombeva con più forza nel contesto religioso dei secoli II-IV, e specialmente nel sincretismo promosso da Commodo e dai Severi. Non si può trascurare la testimonianza di Celso — il «portavoce», secondo alcuni, dell’imperatore Marco Aurelio, immediato predecessore dell’imperatore Commodo —. A suo dire, «una grande folla di uomini, greci e barbari, riconosceva di aver visto spesso Asclepio, e di vederlo ancora, non come un fantasma, ma nell’atto di guarire, di fare del bene, di predire il futuro». Che poi il dio della medicina esercitasse un fascino pericoloso sui cristiani, risulta anche da recenti studi sull’influsso dell’immagine di Asclepio nelle antiche rappresentazioni di Cristo. Per reagire ai rischi del caso, gli antichi scrittori cristiani orchestrarono una vera e propria strategia, orientata a destituire di ogni credibilità l’assimilazione di Cristo ad Asclepio. Anzitutto, i Padri avviarono la loro contestazione calandosi nel terreno stesso degli avversari pagani, ed entrando senza esitazioni nel dominio sacro del mito: è questo il senso del loro frequente ricorso agli auctores probati della tradizione classica, come i poeti epici, i lirici e i tragici, considerati in qualche modo i «depositari» dei miti pagani. In secondo luogo, i Padri cercarono di mettere in evidenza gli aspetti più scabrosi, o addirittura immorali, del mito in esame. Facendo leva soprattutto sulle vicende scandalose della nascita e della morte di Asclepio, intesero mostrare che egli non poteva in alcun modo essere equiparato a un dio; e tacciandolo di cupidigia e di imperizia nell’esercizio della professione, ne distrussero pure la credibilità come théios anér. Alla fine di questa operazione, sistematicamente condotta nei confronti della religione pagana, Gesù Cristo non poteva che rimanere senza concorrenti, perché gli dèi crollavano uno ad uno, e la «galleria di personaggi» proposti all’imitazione e alla preghiera veniva gradualmente svuotata. Non abbiamo inteso rivisitare tutte le testimonianze cristiane su Asclepio tra il II e il IV secolo; tuttavia quelle che abbiamo esaminato sono sufficienti per illustrare il procedimento dell’apologetica cristiana — da Giustino a Lattanzio — nel caso specifico del dio della medicina. Egli viene ridotto chiaramente al disprezzo, mentre è ridicolizzata qualunque sua pretesa di concorrere con Gesù Cristo, che invece viene predicato — lui solo — come il medico e il benefattore, come l’unico salvatore del mondo.
S.e Rev.ma Enrico dal Covolo Stefano Maria Zuccaro
Rettore Pontificia Università Lateranense Presidente Onorario Fondatore AMGe